martedì 11 giugno 2002
Bear Fiction: A TUTTO TONDO
Faceva un caldo infernale quel pomeriggio di giugno. Ciò nonostante avevo scelto di rimanere al biliardo per poter provare alcuni tiri particolari, dato che l’indomani sarebbe iniziato il campionato di 2^ categoria specialità carambola tre sponde. Il biliardiere, Mohammed, un ragazzo di Casablanca, scuro, molto bello, ma non orso, era andato via e sarebbe tornato non prima delle 16: 00.
Il biliardo era immerso in un profondo silenzio, surreale per quel posto dove grida, chiacchiere ed imprecazioni fanno da padrone. La luce che filtrava attraverso i vetri opacizzati lo rendeva in penombra e risaltavano soltanto i quattro neon accesi sopra il tavolo illuminato dove mi stavo allenando. Mi venne in mente che era la prima volta che mi trovavo da solo, senza dovermi continuamente distrarre, e per il rumore e per la quantità innumerevole di orsi che lo frequenta. Posto strano, il biliardo, dove forti odori si fondono ai suoni ed il tuo occhio riesce a far fremere i tuoi istinti. Tutte quelle posizioni estreme assunte al tavolo, sempre chini, proni, con quella stecca in mano che impugna il manico di legno grosso e duro, avvolto da una gomma per migliorarne la presa. Le palle che corrono veloci o danzano ritmate, questo movimento del braccio che regge la stecca, preciso, insidioso, erotico. Tutti quegli uomini, solo uomini, orsi e non, che non vedono l’ora d’ingoiare l’ultimo boccone a casa, salutare la moglie o altri, per correre lì, in mezzo ai propri simili, in mezzo ai giochi.
Ma quali giochi?!
Ambiente eterogeneo, dal fruttivendolo al grande chirurgo, dal caldarrostaio al direttore di marketing, dove queste differenze sociali si abbattono, non contano più, si è tutti giocatori. Velato, ambiguo, molto, forse troppo. Per antonomasia etero, ma in realtà il più represso. Dove i baci per salutare si sprecano, dove costantemente, "tra uomini" e "per scherzo", qualcuno ti tocca il culo o l’uccello, dove mentre sei in punteria, prono, che ti appresti a tirare, qualcuno passando casualmente al volo si appoggia, facendotelo sentire ben bene. Dove i "suca", "cazzo", "minchia", "coglioni", "arruso", "frocio", "femmina" e via dicendo si sprecano. Ma dove sono tutti "maschi".
A questo punto, i miei pensieri vennero interrotti dal suono del citofono. Chi poteva essere? Mohammed no di certo, era appena andato via. Una strana ansia mista a eccitazione mi pervase e corsi verso la porta a vetri chiusa da me dall’interno. L’eccitazione crebbe a dismisura e cominciai a sudare, non certo per il caldo, quando mi resi conto che l’ombra di quel qualcuno stagliata contro i vetri opachi quasi occupava tutta la porta. Aprii e mi ritrovai davanti Matteo, orso straordinario, trentotto anni, un metro e ottantacinque, intorno ai centoventi chili, capelli e barba neri, rasa, occhi corvini ed un pettorale dove ci si poteva apparecchiare e mangiare, tra l’altro sul morbido, vista la quantità di peli che aveva e che fuoriuscivano allegri e giocosi da una maglietta bianca girocollo a mezze maniche che mettevano in mostra le enormi braccia pelose ed un paio di pantaloncini al ginocchio, stretti, di un materiale elasticizzato simile ai "ciclisti", che facevano ben risaltare le sue grazie nascoste che catturai avidamente con lo sguardo, viste tra l’altro le evidenti dimensioni.
Restai come pietrificato, mi ritrovavo davanti un orso per definizione, per la prima volta da soli. Quello stesso orso che amavo nel mio intimo, quello stesso orso che a carambola era il mio avversario da sempre, da me il più temuto, il più rispettato, lo stesso orso con il quale l’indomani avrei di certo dovuto scontrarmi.
"Che ci fai qui? Ho visto Mohammed e mi ha detto che eri dentro ad allenarti. Se non ti spiace, faccio quattro tiri anch’io."
E si avviò ai tavoli.
Tra noi esisteva eterna competitività, ma anche un profondo rispetto che, capivo, non era generato solo dal gioco, ma da qualcosa di più viscerale, intimo, sebbene non meglio definito. C’era un quid che mi sfuggiva. Il cercarmi sempre per giocare tra tanti giocatori non faceva parte a mio parere solo del gusto della sfida. Il baciarmi sulle guance non con le sue guance, ma con le labbra. Il provare dei tiri particolari quando giocavamo su due tavoli diversi, ma vicini in modo da potermi in qualche modo toccare o sfiorare o semplicemente guardare mentre chino tiravo. Guardare cosa, mi chiedevo. E mi chiedevo anche se tutto ciò che pensavo fosse vero o solamente un parto della mia fantasia erotica o dettato dalla profonda attrazione per lui e, chissà, dal mio amore.
Scelse guarda caso un tavolo attiguo al mio, pur essendo tutti liberi, e cominciò a giocare in assoluto silenzio. Ad un tratto, mentre seguivo un tiro particolarmente difficile che sbagliavo ripetutamente, mi fermò e disse che era errata la posizione. Si avvicinò e, avvolgendomi da dietro, acchiappando il mio braccio destro, mi disse che dovevo tenere l’attacco della mano più indietro rispetto alla punta della stecca ed il braccio più alzato. L’eccitazione mi arrivò alle stelle, la pressione mi faceva pulsare le tempie e la patta dei miei pantaloni stava esplodendo. Ad un tratto mi accorsi che le mie fantasie di sempre non erano poi tanto irreali, anche perché me lo ritrovavo incollato alle chiappe premendo con forza la sua verga d’acciaio sul mio culo. Non resistetti e mi alzai, ma lui di potenza mi abbracciò e mi rimise chino. Ma non demorsi, lo volevo totalmente, e con sforzo ursino mi girai, alzandomi, e la mia bocca arrivò a un centimetro dalla sua. Il resto fu conseguenziale. Le nostre lingue si unirono in una danza frenetica, le nostre mani scivolavano forti e possenti sui nostri corpi uniti e cominciammo a spogliarci rimanendo completamente nudi. Rimasi estasiato a guardare quanto bello fosse, orso più che mai, con il pelo arruffato e con un cazzo veramente splendido per dimensioni, estetica e consistenza. Ci avvinghiammo prepotenti e selvaggi su quel tavolo, quello stesso tavolo che tanto ci aveva diviso, ma che adesso ci univa in un magico e stupendo amarsi comune che ci portò a godere l’uno dell’altro dopo un amplesso che non avremmo voluto avesse mai fine.
Il campionato si svolse regolarmente e la finale per il primo e secondo posto, caso volle, ci vide l’uno contro l’altro. Nessuno dei due fece sconti. Vinsi una memorabile partita tra gli applausi di tutti e con i suoi complimenti. La cosa più bella fu il suo abbraccio e la possente, ursina, stretta di mano. In quell’istante ci rendemmo conto che l’unico vincitore era l’amore.
Adesso il tavolo lo abbiamo montato nella nostra "tana", che dividiamo tutti i giorni e ci serve non soltanto per giocare, ma anche per scatenare quelle fantasie sessuali che quel pomeriggio ci avevano unito, forse per sempre.
[Racconto di AntOrso - Illustrazioni di Dade Ursus]
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