martedì 6 marzo 2001
Bear Fiction - INCONTRO
Aspettare in stazione è sempre poco bello, soprattutto in quella di Milano dove si respira un'aria maledettamente stanca. Ero appena arrivato da Torino e pensavo che avrei potuto telefonare ad alcuni amici per riempire il tempo che mi separava dall'altra partenza per Firenze. Cercai nell'agenda e provai più numeri, non ottenendo nessuna risposta decisi di prendere il primo treno per Firenze e guardando nel quadro indicatore lo lessi in partenza al decimo binario. Di corsa arrivai alla prima vettura di coda che era il vagone ristorante e proseguii fino al successivo. Ero consapevole della difficoltà di trovare un posto a sedere su un treno in partenza domenica sera dopo un breve ponte festivo. Salito in carrozza notai subito parecchia gente distribuita per il corridoio e decisi quindi di non avventurarmi oltre e rimanere sulla piattaforma. Un uomo robusto era lì anche lui, con dei baffi folti, il petto villoso che si lasciava indovinare dal ciuffo fuori la camicia e altrettanti capelli di un colore indefinito. Uno sguardo, un sorriso e due occhi profondi carichi di una strana tristezza.
Avevo avvertito in quel sorriso la voglia di parlare, ed era un'occasione da non perdere. Lo guardavo intensamente e studiavo la sua persona, i miei occhi si fermarono sulle sue mani possenti provate dal lavoro e nello stesso tempo belle. Sentivo uno strano disagio impadronirsi di me e invece che piacevole conversatore divenni inquisitore spietato. La successione delle mie domande ebbe come effetto risposte secche ma non sgarbate e volutamente vaghe. Dovevo appropriarmi di quegli occhi e di quel sorriso. Iniziai a misurare gli sguardi e a calibrare le domande come preso da un'inspiegabile inquietudine. Sentivo di penetrare nell'inconscio protetto del suo IO e la consapevolezza di un mio coinvolgimento mi riempiva di tristezza.
"Che hai?" Mi disse improvvisamente.
"Niente" risposi. "Non farci caso, forse stasera non sono proprio un compagno adatto per un viaggio."
A quel punto il mio silenzio colpevole ebbe come risposta la sua tenera disponibilità. Cominciò a raccontarmi di sé, anche se rimaneva fra le parole dette un certo pudore atavico legato alla sua estrazione o meglio cultura di calabrese emigrato per lavoro. Non c'era nessuna fretta nel suo racconto, anzi, una voluta lentezza scandita da lunghe pause di silenzio. Forse la sua storia poteva raccogliersi fra le mille storie uguali in qualsiasi latitudine ma c'era qualcosa che non riuscivo ad afferrare nella sua pienezza. Mi sentivo trascinato a poco a poco in un coinvolgimento sempre più partecipe. Continuavo ad avere paura.
"Sono stato sposato, ma ora vivo solo già da molto tempo."
"Come mai?"
"Incompatibilità di carattere."
"Quanti anni hai?"
"Sono vecchio, trentacinque."
"Ma dai, se uno a trentacinque anni è vecchio quando ne avrà settanta cosa sarà?"
Non riuscivo nemmeno ad essere originale. Scrutavo il suo corpo forte e villoso quasi vergognandomi e cercavo di non incrociare il suo sguardo, capivo che non potevo sostenerlo. Cominciò a parlarmi di suo figlio e quella tristezza velata ebbe un lampo di serenità, fino a quando ripiombò nel vuoto di due occhi impenetrabili al racconto della sorella morta poco tempo prima dopo una lunga malattia. Raccontava lentamente e la disperazione del ricordo traspariva quasi dalla pelle. Io ascoltavo e non riuscivo a parlare, mi sentivo a disagio perché pensavo che il mio sguardo fosse troppo audace e continuavo a fuggire il confronto dei suoi occhi. Le sue riflessioni scandivano il monotono sferragliare del treno, e sorridevamo entrambi ogni volta che la gente passava dalla nostra piattaforma a quella del vagone seguente lasciando aperte le porte scorrevoli. Sembravamo guardiani di un'intimità non raccolta, e ogni passaggio di gente ci trovava a turno nel richiudere quelle maledette porte.
Cosa volevano dirmi quegli occhi? Mi accorgevo che le parole diventavano strumento di un discorso più profondo e nello stesso tempo ambiguo. Forse non sempre si ha il diritto di tacere. Io tacevo. Ascoltavo la sua evoluzione in una città straniera, dove aveva trovato una quotidianità diversa a convincerlo di una differenza in meglio senza che il dubbio lo sfiorasse. Stava bene. Da parte mia avrei voluto che per entrambi non ci fosse una stazione ad aspettarci, e vedevo scorrere il tempo quasi con cattiveria. Perché non parlavo? Riuscivo a malapena ad inserirmi fra un racconto, una constatazione, una riflessione e scrutavo un tormento non visibile e bene camuffato. Quante volte si era fermato il treno? Non me n'ero neanche accorto. Sapevo che sarebbe sceso alla prossima fermata. Avrei voluto, in quell'ultimo tratto che ci separava dal saluto, raccontare tantissime cose, parlargli di me e mi accorgevo di tutta la mia stupida timidezza. Mi ritornavano alla mente parecchie frasi di alcune mie poesie e scoprivo con rabbia la mia contraddizione che mi faceva scrivere quello che non avrei mai avuto il coraggio di vivere. Vedevo nell'altro la sua innaturale imperturbabilità e coglievo dopo ogni sguardo una domanda muta. Avrei voluto abbracciarlo, ma non osavo neanche porre un discorso che avrebbe potuto rompere un incantesimo di sofferenze. Man mano che il treno si avvicinava a Parma ci guardavamo sempre più muti ed ascoltavamo il silenzio imbarazzato. Può un incontro coinvolgerti a tal punto senza avere la possibilità di verificare le tue sensazioni od emozioni, per una tua stupida scelta? Era quello che mi stava succedendo. Si avvistavano le prime luci della stazione e i nostri sorrisi si facevano controllatamente più impudenti. Preparandosi per la discesa mi rivolse poche frasi di scusa, convinto di avermi annoiato, e nello stesso tempo mi ringraziò aspettando da me una qualsiasi risposta.
"Peccato che abbiamo avuto poco tempo a disposizione per parlare di noi ed avrei avuto senz'altro tante cose da raccontare. Sarà per un'altra volta, se ci rincontreremmo."
Questa fu la mia banalissima risposta ad una domanda espressa e a cento domande inespresse ma vive in quegli occhi di colore indefinito dove la voglia di tenerezza era mista ad una paura inconfessata. Una forte stretta di mano, dove finalmente i nostri corpi si toccavano e un'altra partenza carica adesso di ricordi. Ho guardato fuori dal finestrino per vedere se volesse mandarmi un ultimo saluto, ma con la coerenza della disperazione c'eravamo già detti tutto in quei silenzi. Il treno ripartì dopo pochi minuti di sosta, quasi crudeli, in cui la voglia di scendere era mista al pudore non confessato di una violenza, la mia, qualora avessi tradito il muto accordo di non chiederci nulla.
M'incamminai per il corridoio della vettura alla ricerca di un posto a sedere, mentre la mente riandava a scrutare uno sguardo non vissuto dove il dubbio rimaneva unica certezza.
[Racconto di Oberon]
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