Attendo il rumore del portellone, come ogni sabato.
E’ il portellone di un furgone con strisce adesive pubblicitarie sulle fiancate. Ha avuto qualche piccolo incidente nell’uso quotidiano ed il suo rumore è riconoscibile, il vibrare dei vetri quando viene sbattuto è particolare. Stasera Guido è in ritardo, forse le ultime consegne erano più complicate o il traffico. Assaporo già il piacere di averlo tra le braccia e delle emozioni che sapremo regalarci. Da quando è entrato nella mia vita sono cambiate molte cose, ho smesso di andare a ronzare nei parchi o nei parcheggi dell’autostrada a caccia di sesso veloce con contadini ruspanti, panettieri indecisi o camionisti di passaggio. Mi hanno sempre attirato figure maschili decise, mature, persone del popolo con una sessualità ben pronunciata, i ragazzini o gli efebi non mi hanno mai regalato emozioni, li ho sempre trovati insapori e senza appeal.
Ho aperto tutte le finestre per fare entrare un filo d’aria, la brezza gonfia le tende e regala l’impressione che sia più fresco all’interno.
Lo aspetto appoggiato alla finestra, la piazzetta lì sotto è deserta, m’incanto a guardare le falene attorno al lampione e lascio vagare i ricordi.
Guido, lo conosco da un sacco di tempo, da quando era alle superiori ed io ero uno dei suoi docenti. Era un ragazzone che si staccava dal resto della classe, un poco solitario ma non il tipo musone sfigato. Riservato era forse l’aggettivo corretto per descriverlo, legava coi compagni ma manteneva le distanze, era visibilmente più maturo anche perché la vita non era stata gentilissima con lui. La famiglia gestiva uno spaccio alimentare, il padre non godeva buonissima salute e lui lavorava ogni giorno prima dell’apertura a sistemare e rifornire gli scaffali, poi la scuola, e nel pomeriggio sostituiva la madre al banco o alla cassa, appena lei tornava, andava a fare le consegne con lo scooter. Era gentile con tutti ma deciso di carattere, abbastanza brillante in classe, anche se non gli restava molto tempo a disposizione per studiare, aveva un’ottima memoria e questo gli permetteva di imparare velocemente.
E’ il portellone di un furgone con strisce adesive pubblicitarie sulle fiancate. Ha avuto qualche piccolo incidente nell’uso quotidiano ed il suo rumore è riconoscibile, il vibrare dei vetri quando viene sbattuto è particolare. Stasera Guido è in ritardo, forse le ultime consegne erano più complicate o il traffico. Assaporo già il piacere di averlo tra le braccia e delle emozioni che sapremo regalarci. Da quando è entrato nella mia vita sono cambiate molte cose, ho smesso di andare a ronzare nei parchi o nei parcheggi dell’autostrada a caccia di sesso veloce con contadini ruspanti, panettieri indecisi o camionisti di passaggio. Mi hanno sempre attirato figure maschili decise, mature, persone del popolo con una sessualità ben pronunciata, i ragazzini o gli efebi non mi hanno mai regalato emozioni, li ho sempre trovati insapori e senza appeal.
Ho aperto tutte le finestre per fare entrare un filo d’aria, la brezza gonfia le tende e regala l’impressione che sia più fresco all’interno.
Lo aspetto appoggiato alla finestra, la piazzetta lì sotto è deserta, m’incanto a guardare le falene attorno al lampione e lascio vagare i ricordi.
Guido, lo conosco da un sacco di tempo, da quando era alle superiori ed io ero uno dei suoi docenti. Era un ragazzone che si staccava dal resto della classe, un poco solitario ma non il tipo musone sfigato. Riservato era forse l’aggettivo corretto per descriverlo, legava coi compagni ma manteneva le distanze, era visibilmente più maturo anche perché la vita non era stata gentilissima con lui. La famiglia gestiva uno spaccio alimentare, il padre non godeva buonissima salute e lui lavorava ogni giorno prima dell’apertura a sistemare e rifornire gli scaffali, poi la scuola, e nel pomeriggio sostituiva la madre al banco o alla cassa, appena lei tornava, andava a fare le consegne con lo scooter. Era gentile con tutti ma deciso di carattere, abbastanza brillante in classe, anche se non gli restava molto tempo a disposizione per studiare, aveva un’ottima memoria e questo gli permetteva di imparare velocemente.
Guido aveva un modo di guardarmi che mi spaventava, lo sguardo adorante di chi cerca una figura maschile di riferimento, un sostituto del padre. Una relazione con uno studente è la cosa che terrorizza di più un docente, porta a stravolgere la vita di entrambi, sia che si limiti ad un blando rapporto studente-professore, sia che diventi qualcosa di più profondo che sfoci in un innamoramento. Capita spesso, ed i ragazzi hanno talmente bisogno di sentirsi corrisposti da non tollerare di essere respinti, i loro innamoramenti sono repentini, feroci ed ingenui, senza alcuna delle limitazioni che frenano gli adulti.
Non potevo manifestare evidenti preferenze ma ho sempre avuto un occhio di riguardo per lui, c’era una naturale empatia nei suoi confronti, ma in classe non era possibile mostrarla, divenire il “cocco” del professore sarebbe stato dannoso per lui, i compagni lo avrebbero schernito. Mi stava a cuore e cercavo di proteggerlo da molte delle cose negative che avrebbe incontrato mentre cercava di maturare. Nei consigli di classe l’avevo sempre supportato perché ottenesse la promozione a giugno e non dovesse affaticarsi anche durante l’estate per recuperare materie. Facevo leva nel consiglio docenti sulle difficoltà familiari per fargli ottenere voti migliori di quanto meritasse.
Nei cambi d’ora, nell’intervallo o a fine lezioni me lo trovavo davanti con le sue domande da adolescente. Domande vitali per lui, che potevano far sorridere un adulto, ma a cui non sapeva dare risposte e che non sapeva a chi porre. Erano i grandi perché della vita, quelli che fanno prendere scelte. Mi esternava i suoi dubbi rispetto a quasi ogni problematica, comprese quelle sessuali per le quali mostrava una curiosità vorace. A volte entrava nel personale e mi chiedeva perché non ero sposato o non ci fosse una compagna nella mia vita. Glissavo sorridendo, capivo cosa gli frullava in capo e quale risposta avrebbe voluto, ma non potevo permettermi il lusso di dirgli che le mie scelte erano tutte orientate verso l’omosessualità.
Mi chiedeva se poteva venire a trovarmi durante le consegne o nel primo pomeriggio prima di aprire il negozio. Sapeva dove abitavo perché gli avevo mostrato il mio piccolo tesoro, una veranda con piante tropicali ed orchidee che lui amava in modo particolare. Ogni tanto mi chiedeva di poterle visitare. Gli avevo insegnato come curarle, potarle, annaffiarle e come dovevano essere esposte alla luce. Era un piccolo paradiso privato dove mi ritiravo a leggere. Un divanetto di vimini divenne il luogo dove, al riparo di orecchi indiscreti, mi poneva i suoi quesiti più intimi e dove si apriva raccontandomi cosa lo turbava. I sentimenti erano a fior di pelle ma non venivano espressi. Evitavo il contatto fisico che potesse in qualche modo essere frainteso e terminavo ogni discussione con lui con una stretta di mano, a ribadire il rispetto, la familiarità ma anche la distanza che ci separava. In realtà vedevo in lui quello che ero stato alla sua età, con gli stessi sbandamenti, le incertezze sessuali, la necessità di porre domande a cui nessuno poteva rispondere, i bisogni di sicurezza e affermazione personale.
Non potevo manifestare evidenti preferenze ma ho sempre avuto un occhio di riguardo per lui, c’era una naturale empatia nei suoi confronti, ma in classe non era possibile mostrarla, divenire il “cocco” del professore sarebbe stato dannoso per lui, i compagni lo avrebbero schernito. Mi stava a cuore e cercavo di proteggerlo da molte delle cose negative che avrebbe incontrato mentre cercava di maturare. Nei consigli di classe l’avevo sempre supportato perché ottenesse la promozione a giugno e non dovesse affaticarsi anche durante l’estate per recuperare materie. Facevo leva nel consiglio docenti sulle difficoltà familiari per fargli ottenere voti migliori di quanto meritasse.
Nei cambi d’ora, nell’intervallo o a fine lezioni me lo trovavo davanti con le sue domande da adolescente. Domande vitali per lui, che potevano far sorridere un adulto, ma a cui non sapeva dare risposte e che non sapeva a chi porre. Erano i grandi perché della vita, quelli che fanno prendere scelte. Mi esternava i suoi dubbi rispetto a quasi ogni problematica, comprese quelle sessuali per le quali mostrava una curiosità vorace. A volte entrava nel personale e mi chiedeva perché non ero sposato o non ci fosse una compagna nella mia vita. Glissavo sorridendo, capivo cosa gli frullava in capo e quale risposta avrebbe voluto, ma non potevo permettermi il lusso di dirgli che le mie scelte erano tutte orientate verso l’omosessualità.
Mi chiedeva se poteva venire a trovarmi durante le consegne o nel primo pomeriggio prima di aprire il negozio. Sapeva dove abitavo perché gli avevo mostrato il mio piccolo tesoro, una veranda con piante tropicali ed orchidee che lui amava in modo particolare. Ogni tanto mi chiedeva di poterle visitare. Gli avevo insegnato come curarle, potarle, annaffiarle e come dovevano essere esposte alla luce. Era un piccolo paradiso privato dove mi ritiravo a leggere. Un divanetto di vimini divenne il luogo dove, al riparo di orecchi indiscreti, mi poneva i suoi quesiti più intimi e dove si apriva raccontandomi cosa lo turbava. I sentimenti erano a fior di pelle ma non venivano espressi. Evitavo il contatto fisico che potesse in qualche modo essere frainteso e terminavo ogni discussione con lui con una stretta di mano, a ribadire il rispetto, la familiarità ma anche la distanza che ci separava. In realtà vedevo in lui quello che ero stato alla sua età, con gli stessi sbandamenti, le incertezze sessuali, la necessità di porre domande a cui nessuno poteva rispondere, i bisogni di sicurezza e affermazione personale.
Mi addolorò quando la madre venne a dire che lo avrebbe ritirato a fine anno e non avrebbe proseguito gli studi per l’aggravamento delle condizioni del padre.
Lo persi quasi di vista negli anni seguenti, mi capitava di incrociarlo con il suo scooter e i pacchi da consegnare in paese, indossava il casco e lo riconoscevo solo se strombazzava e accennava un saluto. Dopo i 18 anni prese la patente e lo vidi in giro sul furgone con l’adesivo pubblicitario dell’azienda. Stava sempre col braccio muscoloso e peloso fuori dal finestrino. Era più semplice riconoscerlo in quel modo. Ormai reggeva il negozio al posto del padre che si era aggravato fino a rischiare di perdere la vita. Era l’uomo di casa.
In quattro anni aveva messo su peso, qualcosa come 15 chili di muscoli e lardo distribuiti in modo delizioso, cosce tornite, belle chiappe tonde, pancetta e pettorali robusti e un bel viso rotondo e sorridente. Probabilmente aveva superato il quintale.
Aveva di volta in volta tenuto e tagliato baffi, barba, pizzetto, favoriti, un po’ per stare alla moda un po’ per sembrare più maturo. Amava un taglio di capelli corto, semplice da curare, a causa del quale lo prendevo in giro salutandolo con un “hey marine!”. Non avevo aggiornamenti sulla sua vita privata, non sapevo se frequentasse ragazze, o chi fossero i suoi amici.
Un pomeriggio in cui sentivo l’insopprimibile bisogno di avere un’avventura, al riparo da occhi indiscreti, andai in una città vicina, in un bagno pubblico dove sapevo che la fauna era molto interessante e la scena poteva diventare bollente. Ancor prima di entrare mi accorsi di un certo movimento. Due uomini stavano toccandosi, uno aveva la maglietta appoggiata su una spalla ed era a torso nudo, dell’altro, più nascosto, vedevo solo la mano che armeggiava con la sua patta. Ero eccitato per la situazione che poteva diventare torrida e già immaginavo un giochetto a tre quando vidi che l’altro uomo era Guido. Mi bloccai, l’eccitazione scomparve, mi sentii avvampare in un misto di rabbia, sconforto, gelosia, paura e nausea. Richiusi la lampo ed uscii quasi di corsa, alzando una mano a stoppare qualsiasi sua balbettante recriminazione.
Il “mio” Guido che avevo cercato consapevolmente di proteggere da me stesso, era in un cesso pubblico con un altro uomo. Mi sembrava impossibile, a cosa era servito il mio evitare di farmi coinvolgere, mi sentivo umiliato per la situazione in cui l’avevo colto. Sentii i suoi passi alle spalle, Guido mi seguì non osando chiamarmi per nome, forse per evitare un’inutile scenata in pubblico, mi girai due volte e vidi disappunto sul suo volto, cercava il mio sguardo ma non glielo concessi. Mi seguì fino all’auto dove salii e misi in moto senza concedergli mai di potermi parlare. Dallo specchietto lo vidi scuotere il capo allargando le braccia in un gesto dolente.
Tornai a casa infuriato, cercando di dare un senso a quella rabbia che mi era esplosa dentro, sapevo la risposta ma non avrei permesso a me stesso di dirla. Gelosia. Ripensai ad una notte, vicino ad un parco che frequentavo quasi ogni settimana, dove il battuage era serrato. Vidi parcheggiato in zona il riconoscibilissimo furgone di Guido col suo adesivo sulle fiancate, pensai che fosse solo un caso, ora il dubbio che avevo soffocato, che fosse lì per cercare altri maschi riprese consistenza. Aveva fatto le sue scelte ed aveva conosciuto il sapore di un uomo, un altro uomo che non ero io, altre mani avevano accarezzato i suoi peli, il suo ventre, le sue cosce, il suo sesso, altre bocche avevano assaggiato le sue labbra, i suoi capezzoli, la sua pelle e gli avevano regalato piacere. Avevo voglia di spaccare qualcosa.
Il sabato successivo un clacson suonò nella piazzetta sotto casa, dopo un paio di minuti suonò di nuovo, imprecai a quegli sciamannati irrispettosi della quiete, i campanelli ed i cellulari esistevano per evitare gli schiamazzi inutili. Mi affacciai per vedere chi strombazzava e vidi Guido appoggiato al suo furgone, col finestrino abbassato, pronto a suonare di nuovo. Guardava in sù senza muovere un muscolo, con la testa inclinata con un’aria triste e sorniona allo stesso tempo. Appena mi affacciai affondò le mani nelle tasche dei jeans coi gomiti allargati, alzò le spalle in un gesto di scusa, col corpo sembrava chiedesse “che posso farci?” Rimasi a guardarmelo, stringendo le labbra, una folla di pensieri mi girava in testa senza riuscire a trovare un bandolo, senza riuscire a decidermi se farlo salire o no, se parlargli, se rifiutarmi e volgergli le spalle, pensai a tutte le conseguenze, ai vicini chiaccheroni, al collegio dei docenti, alla preside, a tutte le mie conoscenze, alle beghine del paese se solo avessero saputo. Pensai a quanto gli fosse costato quel gesto, pensai che avrebbe potuto suonare al campanello ma aveva preferito mostrarsi invece di parlarmi al citofono, pensai mentre lo guardavo:
“il “mio” Guido è qui sotto col suo faccione tenero e triste, ed è qui per me, è qui perché vuole dirmi che mi vuole bene e che è dispiaciuto di come ho saputo delle sue scelte, è qui perché adesso può dirmi tutto quello che non ha osato esprimere in tutti questi anni”.
Decisi di mandare affanculo il mondo, gli feci segno di salire ed aprii la porta, il suo sorriso illuminò tutta la piazza.
Come sembrarono lunghi quei pochi secondi mentre saliva le scale, mi proposi di darmi un contegno, di calmarmi, mentre le pulsazioni correvano senza arrestarsi. Aprii la porta e lui scivolò dentro, era diventato grande, un adulto con un corpo fantastico anche se io continuavo a vedere in lui l’allievo e non l’uomo fatto. Aprì bocca per cominciare a parlare, glielo impedii posandogli un dito sulle labbra ad intimargli il silenzio. Lo presi per un braccio e lo portai in camera da letto. Non ci fu’ bisogno di aggiungere nulla, camicie, calzoni, scarpe, calze e mutande volarono mentre le nostre labbra si univano. Un bacio bruciante, sgarbato, sgangherato, pieno di tutta la passione trattenuta fino a quel momento, ci urtammo i denti, ci mordemmo, ci succhiammo le lingue soffocandoci per non prendere respiro. Un bacio senza fine, senza riaprire gli occhi. Rotolammo sul letto, toccandoci, mordendoci, leccandoci, succhiandoci, frugandoci in ogni piega, in ogni curva, assaggiando la nostra pelle ed ogni sua fragranza.
Eravamo entrambi bagnati di precum vogliosi di esplodere, ce lo scambiammo succhiandoci le dita a vicenda. Incapaci di resistere, godemmo senza alcun ritegno, senza trattenerci, senza pensare a nulla, grugnendo, gemendo, digrignando i denti. Consumammo quella prima mezz’ora senza una parola, poi dopo i grugniti e gli ansimi venne il momento delle parole, del raccontarci le reciproche storie, le paure, i sogni, i desideri. Mi raccontò della passionaccia che si era preso a scuola e di come si era sentito offeso per la mia rigidezza, per non avergli mai manifestato quell’affetto che lui intuiva ma non sapevo e non volevo esprimere. Ridemmo e ci sentimmo accomunati dai ricordi, dalle tante esperienze, ci commuovemmo dei nostri sentimenti, finalmente liberati dai nostri timori.
Lo persi quasi di vista negli anni seguenti, mi capitava di incrociarlo con il suo scooter e i pacchi da consegnare in paese, indossava il casco e lo riconoscevo solo se strombazzava e accennava un saluto. Dopo i 18 anni prese la patente e lo vidi in giro sul furgone con l’adesivo pubblicitario dell’azienda. Stava sempre col braccio muscoloso e peloso fuori dal finestrino. Era più semplice riconoscerlo in quel modo. Ormai reggeva il negozio al posto del padre che si era aggravato fino a rischiare di perdere la vita. Era l’uomo di casa.
In quattro anni aveva messo su peso, qualcosa come 15 chili di muscoli e lardo distribuiti in modo delizioso, cosce tornite, belle chiappe tonde, pancetta e pettorali robusti e un bel viso rotondo e sorridente. Probabilmente aveva superato il quintale.
Aveva di volta in volta tenuto e tagliato baffi, barba, pizzetto, favoriti, un po’ per stare alla moda un po’ per sembrare più maturo. Amava un taglio di capelli corto, semplice da curare, a causa del quale lo prendevo in giro salutandolo con un “hey marine!”. Non avevo aggiornamenti sulla sua vita privata, non sapevo se frequentasse ragazze, o chi fossero i suoi amici.
Un pomeriggio in cui sentivo l’insopprimibile bisogno di avere un’avventura, al riparo da occhi indiscreti, andai in una città vicina, in un bagno pubblico dove sapevo che la fauna era molto interessante e la scena poteva diventare bollente. Ancor prima di entrare mi accorsi di un certo movimento. Due uomini stavano toccandosi, uno aveva la maglietta appoggiata su una spalla ed era a torso nudo, dell’altro, più nascosto, vedevo solo la mano che armeggiava con la sua patta. Ero eccitato per la situazione che poteva diventare torrida e già immaginavo un giochetto a tre quando vidi che l’altro uomo era Guido. Mi bloccai, l’eccitazione scomparve, mi sentii avvampare in un misto di rabbia, sconforto, gelosia, paura e nausea. Richiusi la lampo ed uscii quasi di corsa, alzando una mano a stoppare qualsiasi sua balbettante recriminazione.
Il “mio” Guido che avevo cercato consapevolmente di proteggere da me stesso, era in un cesso pubblico con un altro uomo. Mi sembrava impossibile, a cosa era servito il mio evitare di farmi coinvolgere, mi sentivo umiliato per la situazione in cui l’avevo colto. Sentii i suoi passi alle spalle, Guido mi seguì non osando chiamarmi per nome, forse per evitare un’inutile scenata in pubblico, mi girai due volte e vidi disappunto sul suo volto, cercava il mio sguardo ma non glielo concessi. Mi seguì fino all’auto dove salii e misi in moto senza concedergli mai di potermi parlare. Dallo specchietto lo vidi scuotere il capo allargando le braccia in un gesto dolente.
Tornai a casa infuriato, cercando di dare un senso a quella rabbia che mi era esplosa dentro, sapevo la risposta ma non avrei permesso a me stesso di dirla. Gelosia. Ripensai ad una notte, vicino ad un parco che frequentavo quasi ogni settimana, dove il battuage era serrato. Vidi parcheggiato in zona il riconoscibilissimo furgone di Guido col suo adesivo sulle fiancate, pensai che fosse solo un caso, ora il dubbio che avevo soffocato, che fosse lì per cercare altri maschi riprese consistenza. Aveva fatto le sue scelte ed aveva conosciuto il sapore di un uomo, un altro uomo che non ero io, altre mani avevano accarezzato i suoi peli, il suo ventre, le sue cosce, il suo sesso, altre bocche avevano assaggiato le sue labbra, i suoi capezzoli, la sua pelle e gli avevano regalato piacere. Avevo voglia di spaccare qualcosa.
Il sabato successivo un clacson suonò nella piazzetta sotto casa, dopo un paio di minuti suonò di nuovo, imprecai a quegli sciamannati irrispettosi della quiete, i campanelli ed i cellulari esistevano per evitare gli schiamazzi inutili. Mi affacciai per vedere chi strombazzava e vidi Guido appoggiato al suo furgone, col finestrino abbassato, pronto a suonare di nuovo. Guardava in sù senza muovere un muscolo, con la testa inclinata con un’aria triste e sorniona allo stesso tempo. Appena mi affacciai affondò le mani nelle tasche dei jeans coi gomiti allargati, alzò le spalle in un gesto di scusa, col corpo sembrava chiedesse “che posso farci?” Rimasi a guardarmelo, stringendo le labbra, una folla di pensieri mi girava in testa senza riuscire a trovare un bandolo, senza riuscire a decidermi se farlo salire o no, se parlargli, se rifiutarmi e volgergli le spalle, pensai a tutte le conseguenze, ai vicini chiaccheroni, al collegio dei docenti, alla preside, a tutte le mie conoscenze, alle beghine del paese se solo avessero saputo. Pensai a quanto gli fosse costato quel gesto, pensai che avrebbe potuto suonare al campanello ma aveva preferito mostrarsi invece di parlarmi al citofono, pensai mentre lo guardavo:
“il “mio” Guido è qui sotto col suo faccione tenero e triste, ed è qui per me, è qui perché vuole dirmi che mi vuole bene e che è dispiaciuto di come ho saputo delle sue scelte, è qui perché adesso può dirmi tutto quello che non ha osato esprimere in tutti questi anni”.
Decisi di mandare affanculo il mondo, gli feci segno di salire ed aprii la porta, il suo sorriso illuminò tutta la piazza.
Come sembrarono lunghi quei pochi secondi mentre saliva le scale, mi proposi di darmi un contegno, di calmarmi, mentre le pulsazioni correvano senza arrestarsi. Aprii la porta e lui scivolò dentro, era diventato grande, un adulto con un corpo fantastico anche se io continuavo a vedere in lui l’allievo e non l’uomo fatto. Aprì bocca per cominciare a parlare, glielo impedii posandogli un dito sulle labbra ad intimargli il silenzio. Lo presi per un braccio e lo portai in camera da letto. Non ci fu’ bisogno di aggiungere nulla, camicie, calzoni, scarpe, calze e mutande volarono mentre le nostre labbra si univano. Un bacio bruciante, sgarbato, sgangherato, pieno di tutta la passione trattenuta fino a quel momento, ci urtammo i denti, ci mordemmo, ci succhiammo le lingue soffocandoci per non prendere respiro. Un bacio senza fine, senza riaprire gli occhi. Rotolammo sul letto, toccandoci, mordendoci, leccandoci, succhiandoci, frugandoci in ogni piega, in ogni curva, assaggiando la nostra pelle ed ogni sua fragranza.
Eravamo entrambi bagnati di precum vogliosi di esplodere, ce lo scambiammo succhiandoci le dita a vicenda. Incapaci di resistere, godemmo senza alcun ritegno, senza trattenerci, senza pensare a nulla, grugnendo, gemendo, digrignando i denti. Consumammo quella prima mezz’ora senza una parola, poi dopo i grugniti e gli ansimi venne il momento delle parole, del raccontarci le reciproche storie, le paure, i sogni, i desideri. Mi raccontò della passionaccia che si era preso a scuola e di come si era sentito offeso per la mia rigidezza, per non avergli mai manifestato quell’affetto che lui intuiva ma non sapevo e non volevo esprimere. Ridemmo e ci sentimmo accomunati dai ricordi, dalle tante esperienze, ci commuovemmo dei nostri sentimenti, finalmente liberati dai nostri timori.
Tornò l’eccitazione e la voglia di farlo meglio. Ci amammo, senza frenesia stavolta, con la voglia di lasciar parlare i nostri corpi. Scoprimmo i nostri punti caldi e sensibili, e fu dolce, torrido e tenero stuzzicarli per regalarci piacere. Finimmo d’ansare e pose la testa sul mio pancione e si lasciò coccolare ed accarezzare, quasi si addormentò mentre mi stringeva. Mi fece una tenerezza infinita, avrei voluto che quel momento non finisse mai. Mi resi conto che avevo desiderato quel contatto fin dal primo giorno, solo il rapporto precedente studente-professore ci aveva bloccati impedendoci una conoscenza intima che entrambi volevamo.
Doveva rientrare a casa, gli offrii una doccia prima d’andarsene.
Me lo guardai tutto mentre s’insaponava, perfetto sotto ogni aspetto, bello come un sogno, era la prima volta che potevo vederlo nudo ad almeno un metro di distanza, tornito, sodo e peloso, con un culo strepitoso e tutte le cose al posto giusto, esprimeva sensualità in ogni gesto.
Uscì pochi minuti dopo dal box doccia per asciugarsi, lo aiutai ad indossare l’accappatoio e mi baciò teneramente mentre lo strofinavo ed abbracciavo. Avremmo potuto ricominciare a far l’amore. Rise davanti alla nuova evidente eccitazione di entrambi. Mi respinse dolcemente scuotendo il capo.
Si rivestì e mi chiese:
“Che fai sabato?”
“Nulla di pianificato”
“Posso passare?”
Annuii.
Guido da quella notte è il ragazzo del sabato sera. Beh non solo quello…
Se soltanto sentissi sbattere quel portellone coi vetri tintinnanti potrei cominciare a sorridere.
[I collages di Renenou che illustrano il racconto sono libere elaborazioni delle opere di Edward Hopper, esposte al MoMa Museum di New York.]
Doveva rientrare a casa, gli offrii una doccia prima d’andarsene.
Me lo guardai tutto mentre s’insaponava, perfetto sotto ogni aspetto, bello come un sogno, era la prima volta che potevo vederlo nudo ad almeno un metro di distanza, tornito, sodo e peloso, con un culo strepitoso e tutte le cose al posto giusto, esprimeva sensualità in ogni gesto.
Uscì pochi minuti dopo dal box doccia per asciugarsi, lo aiutai ad indossare l’accappatoio e mi baciò teneramente mentre lo strofinavo ed abbracciavo. Avremmo potuto ricominciare a far l’amore. Rise davanti alla nuova evidente eccitazione di entrambi. Mi respinse dolcemente scuotendo il capo.
Si rivestì e mi chiese:
“Che fai sabato?”
“Nulla di pianificato”
“Posso passare?”
Annuii.
Guido da quella notte è il ragazzo del sabato sera. Beh non solo quello…
Se soltanto sentissi sbattere quel portellone coi vetri tintinnanti potrei cominciare a sorridere.
[I collages di Renenou che illustrano il racconto sono libere elaborazioni delle opere di Edward Hopper, esposte al MoMa Museum di New York.]
1 commento:
Bel racconto, Gigi, complimenti!
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